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Introduzione

Figlia di Ambrogio Faccio, professore di scienze, e di Ernesta Cottino, casalinga, era la maggiore di quattro fratelli. Trascorse l'infanzia a Milano fino all'età di dodici anni, quando interruppe gli studi per il trasferimento della famiglia a Civitanova Marche, dove il marchese Sesto Ciccolini aveva offerto al padre la direzione della propria azienda industriale. Fu suo padre a spingere Rina a impiegarsi come contabile nello stesso stabilimento.

L'adolescenza della giovane Rina fu tutt'altro che felice: nel 1889 la madre, sofferente da tempo di depressione, tentò il suicidio gettandosi dal balcone di casa. La sua crisi si accentuò progressivamente negli anni, provocando tensioni inevitabili nei rapporti familiari: dopo pochi anni, la donna fu ricoverata nel manicomio di Macerata, dove si spense nel 1917. Nel 1891, a quindici anni, Rina fu violentata da un impiegato della fabbrica, Ulderico Pierangeli: rimase incinta ma perdette il bambino, e tuttavia nel 1893 fu costretta dalla famiglia a un matrimonio «riparatore».

Prigioniera in una convivenza squallida con un marito non stimato e di una vita condotta in una cittadina della quale percepiva il gretto provincialismo, credette di trovare nella cura del suo primo figlio Walter, nato nel 1895, una fuga dall'oppressione della propria esistenza: la caduta di questa illusione la portò a un tentativo di suicidio, dal quale volle sollevarsi attraverso un personale impegno a realizzare aspirazioni umanitarie attraverso le letture e gli scritti di articoli che le furono pubblicati, a partire dal 1897, nella «Gazzetta letteraria», ne «L'Indipendente», nella rivista femminista «Vita moderna», e nel periodico, di ispirazione socialista, «Vita internazionale».

Il suo impegno femminista non si limitò alla scrittura ma si concretizzò nel tentativo di costituire sezioni del movimento delle donne e nella partecipazione a manifestazioni per il diritto di voto e per la lotta contro la prostituzione.

Trasferitasi nel 1899 a Milano dove il marito, licenziato dall'impiego, aveva avviato un'attività commerciale, a Rina Faccio fu affidata la direzione del settimanale socialista «L'Italia femminile», fondato da Emilia Mariani, divenne grande amica di Alessandrina Ravizza, conobbe influenti dirigenti socialisti come Anna Kuliscioff e Filippo Turati, e iniziò una relazione con il poeta Guglielmo Felice Damiani.

In seguito a dissensi con l'editore Lamberto Mondaini, lasciò già nel gennaio del 1900 la direzione del settimanale e dovette seguire la famiglia nuovamente a Porto Civitanova. I difficili rapporti familiari la convinsero ad abbandonare marito e figlio trasferendosi a Roma nel febbraio del 1902 e legandosi a Giovanni Cena, direttore della rivista «Nuova Antologia» alla quale la Faccio collaborò e iniziò a scrivere, su sollecitazione dello stesso Cena, il romanzo Una donna, pubblicato NEL 1906 sotto lo pseudonimo di Sibilla Aleramo e da allora divenne il suo nome nella letteratura e nella vita. Il libro ottenne subito un grande successo e fu presto tradotto in quasi tutti i paesi europei e negli Stati Uniti.

Continuò la propria attività nel movimento femminista, partecipando al Primo congresso femminile nazionale e impegnandosi negli interventi sociali e umanitari, di cui si era fatto promotore il Cena, con la creazione di scuole nella provincia di Roma e del Comitato per l'istruzione delle popolazioni nel Mezzogiorno costituito dopo il terremoto del 1908.

Dal movimento femminista si distaccò poco dopo, giudicandolo «una breve avventura, eroica all'inizio, grottesca sul finire, un'avventura da adolescenti, inevitabile ed ormai superata». Si trattava ora, secondo lei, di rivendicare ed esprimere la diversità femminile.

Terminata la relazione con Cena, condusse una vita piuttosto errabonda. Nel 1913, a Milano, si avvicinò ai Futuristi. A Parigi (1913-1914) conobbe Guillaume Apollinaire e Verhaeren, a Roma Grazia Deledda. Durante la prima guerra mondiale conobbe Dino Campana. Nel 1919 pubblicò Il passaggio e nel 1921 la sua prima raccolta di poesie, Momenti. Nel 1920 è a Napoli, dove scrive Endimione, dedicato a D'Annunzio. Femminista, pacifista, fascista ma subito dopo il 1945 convinta comunista, la scrittrice Sibilla Aleramo non si adeguò a ruoli o immagini femminili tradizionali.

Nel 1927 uscì il romanzo epistolare Amo dunque sono, raccolta di lettere, non spedite, a Giulio Parise. Sempre in quegli anni ebbe una breve ma intensa relazione con Julius Evola, come lei stessa riporta nel libro Amo dunque sono. Nel 1925 è firmataria del Manifesto degli intellettuali antifascisti e, poiché conosceva Anteo Zamboni, l'attentatore del duce, fu persino arrestata, ma in seguito, ottenuto un colloquio con lo stesso Benito Mussolini, ne uscì indenne e divenne una convinta sostenitrice del fascismo. Le fu concesso un mensile di mille lire e un premio di cinquantamila lire dell'Accademia d'Italia. Il regime fascista da allora sponsorizzò attivamente le sue opere e la sostenne economicamente. Nel 1933 si iscrisse all'"Associazione nazionale fascista donne artiste e laureate".

Nel 1936 si innamorò di Franco Matacotta, uno studente di quarant'anni più giovane di lei, a cui restò legata per 10 anni.

Al termine della seconda guerra mondiale si iscrisse al PCI, impegnandosi intensamente in campo politico e sociale e collaborando con l'Unità.

Morì a Roma a ottantatré anni nel 1960, dopo una lunga malattia.

Ultimo aggiornamento: 23-03-2024, 16:36

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